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La Cassazione, nella sentenza n. 16115/2024, ha ricapitolato una serie di principi in materia di reati fallimentari di cui appare opportuno dare conto.

Si ricorda, innanzitutto, come, ai fini dell’integrazione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, da un lato, non sia necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento e, dall’altro, rilevi il dolo generico, per la cui sussistenza non è necessario che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né che abbia agito allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte.

Quanto alla bancarotta fraudolenta documentale per irregolare tenuta della contabilità “in guisa tale” da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, si precisa come sia richiesto il dolo generico, nella forma del dolo intenzionale, e non il dolo specifico; atteggiamento psicologico che, invece, è necessario per l’integrazione della fattispecie di sottrazione, distruzione o falsificazione dei libri e delle altre scritture contabili.

Il dolo è generico perché la (apparente) finalità dell’agente (“in guisa tale”) è riferita a un elemento costitutivo della fattispecie, ovvero alla impossibilità di ricostruire il patrimonio e il movimento degli affari dell’impresa. Ne consegue la necessità di differenziazione rispetto all’elemento psicologico della bancarotta semplice di cui all’art. 217 comma 2 del RD 267/42. Diversità che è da rinvenire nel fatto che soltanto quello che caratterizza la bancarotta fraudolenta deve risultare arricchito di componenti soggettive che afferiscano esplicitamente al tema della messa in pericolo dell’interesse dei creditori a una ricostruzione completa ed esaustiva delle scritture sociali attinenti a tutte le iniziative economiche della società. Si tratta di profili che, normalmente, sono desunti da indicatori quali la consistenza del materiale documentale tenuto in violazione di legge oppure dalla correlazione di tale condotta con attività distrattive; perché il disordine contabile è, in genere, destinato al relativo nascondimento.

In pratica, il dolo generico in questione deve essere desunto con metodo logico-presuntivo. Non può, cioè, essere tratto dal solo fatto, costituente l’elemento materiale del reato, che lo stato delle scritture sia tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, poiché è necessario chiarire quali siano gli elementi sulla base dei quali possa dirsi che l’imputato abbia avuto coscienza e volontà di realizzare detta oggettiva impossibilità e non, invece, di trascurare semplicemente la regolare tenuta delle scritture, senza valutare le conseguenze di tale condotta, atteso che, in quest’ultimo caso, si integrerebbe l’atteggiamento psicologico del diverso, e meno grave, reato di bancarotta documentale semplice di cui all’art. 217 comma 2 del RD 267/42.

Da questo punto di vista, come accennato, finisce per rilevare il fatto che la condotta di irregolare tenuta dei libri o delle altre scritture contabili, che rappresenta l’evento fenomenico dal cui verificarsi dipende l’integrazione dell’elemento oggettivo del reato, è di regola funzionale all’occultamento o alla dissimulazione di atti depauperativi del patrimonio sociale. Circostanza che consente di dedurre il dolo generico, con metodo logico-presuntivo, appunto, dall’accertata responsabilità dell’imputato per fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

Chiuse le indicazioni in materia di bancarotta documentale, con riguardo alle operazioni dolose di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 del RD 267/42, la Cassazione ribadisce come rilevi anche il protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rende prevedibile il conseguente dissesto della società.

La decisione in commento si sofferma, infine, sul caso della consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta, anche relative a diverse fattispecie di cui agli artt. 216 e 217 del RD 267/42, nell’ambito del medesimo fallimento. In tal caso, le varie condotte mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo a un concorso di reati unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall’art. 219 comma 2 n. 1 del RD 267/42; disposizione che, pertanto, non prevede, sotto il profilo “strutturale”, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all’art. 81 c.p.

In ottica “formale”, tuttavia, la c.d. continuazione fallimentare rileva come circostanza aggravante, con conseguente assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con eventuali attenuanti. E allora, applicandosi anche l’art. 69 c.p., nell’ipotesi in cui dovessero essere contestualmente riconosciute una o più attenuanti, non sarebbe possibile irrogare l’aumento di pena previsto dall’art. 219 comma 2 n. 1 del RD 267/42.
Ad ogni modo, tale disciplina non attiene all’ipotesi di fatti verificatisi nell’ambito di due autonome procedure fallimentari (come accadeva nel caso di specie).

 

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