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Mediante la sentenza de qua la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla sorte del giudizio endofallimentare di opposizione allo stato passivo ex art. 98 l. fall. qualora in pendenza del giudizio intervenga, con sentenza passata in giudicato, la revoca della dichiarazione di fallimento.

Nel sancire l’improcedibilità del giudizio di opposizione allo stato passivo, la Corte ha innanzitutto chiarito che la questione “può essere affrontata d’ufficio da questa Corte (tenuta a prendere atto del giudicato esterno), a differenza che nel caso in cui, nella pendenza del ricorso, intervenga la chiusura del fallimento ai sensi dell’art. 118, comma 1, l. fall.”; ciò in quanto, spiega la Cassazione, “ancorché non si dubiti che, sul piano processuale, le conseguenze della revoca o della chiusura della procedura sulle controversie di cui all’art. 98 l. fall. siano le medesime, la chiusura costituisce infatti mera causa di interruzione del processo, come tale non incidente sul giudizio di legittimità”.

Posta questa premessa, la Suprema Corte evidenzia il cambio di paradigma rispetto all’orientamento maggioritario diffuso nella giurisprudenza di legittimità anteriormente alla riforma di cui al d.lgs. 5/2006, in accordo al quale tanto la chiusura quanto la revoca del fallimento comportavano il subentro dell’ex fallito al curatore anche nei procedimenti di opposizione allo stato passivo o di accertamento delle dichiarazioni tardive di credito pendenti; ciò, in quanto – si argomentava – entrambi gli eventi determinavano la cessazione degli organi fallimentari e il rientro del fallito nella disponibilità del suo patrimonio, con la relativa legittimazione processuale.

Tale orientamento, chiarisce la Corte, “non può ricevere seguito nel regime introdotto dal d. lgs. n. 5/06 cit.”. Infatti, “il giudizio di opposizione allo stato passivo, come emerge dall’art. 96, ultimo comma, l.f., è un procedimento strettamente connesso alla procedura fallimentare, teso ad accertare il credito ai soli fini dell’ammissione al passivo, con efficacia endo-fallimentare del provvedimento emesso dal giudice delegato o dal tribunale fallimentare in sede di opposizione ex art. 98 l.f.”; le decisioni assunte all’esito dei giudizi di impugnazione ex art. 99 l.f., in altri termini, “producono effetti soltanto ai fini del concorso”.

Questa conclusione, continua la Suprema Corte, trova conferma anche nel disposto dell’art. 120, ultimo comma, l.f., secondo cui il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta ai fini dell’ottenimento del decreto ingiuntivo. Da ciò discende, infatti, che “il creditore che intenda agire contro il debitore tornato in bonis non può dunque far valere nei suoi confronti, quale titolo esecutivo, la pronuncia di ammissione del credito al passivo, priva di efficacia ultra-concorsuale, potendo eventualmente giovarsene solo come prova scritta ai fini del conseguimento del decreto ingiuntivo” (nello stesso senso, Cass. n. 19752/2017).

Sulla base di simili argomenti, la Corte conclude che “risulta in definitiva palese che i giudizi di cui si discute trovano il loro necessario presupposto nella procedura concorsuale, sicché, con la revoca del fallimento, vengono a perdere la loro ragion d’essere: non avrebbe alcun senso prevedere la possibilità di loro riassunzione da parte del creditore o del fallito tornato in bonis, entrambi privi di interesse ad ottenere una pronuncia definitiva di accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del credito ai fini del concorso, che resterebbe priva di efficacia al di fuori di esso”.

Di conseguenza, nel sistema successivo alla riforma del 2006, la sopravvenuta revoca del fallimento con sentenza passata in giudicato rende improcedibile il giudizio di opposizione allo stato passivo.

 

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