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Corte di Cassazione – Sez. V Pen. – Sent. n. 47900 del 30/11/2023

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1. I fatti

La pronuncia della Corte di Cassazione scaturisce dal ricorso presentato dagli imputati avverso la sentenza della Corte di appello di Milano che ha confermato la condanna dell’imputato per concorso nel delitto di bancarotta impropria da reato societario con riguardo al fallimento della società dichiarata fallita dal Tribunale di Milano nel 2010.
Gli imputati sono stati ritenuti responsabili del delitto di cui all’art. 223, co. 2, n. 1), l. fall. in relazione al reato di falso in bilancio (art. 2621 cod. civ.).
Il fatto contestato risulta questo: “perché, con l’intenzione di ingannare il pubblico ed i creditori, al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé e per altri, esponendo nel bilancio ordinario (e nel consolidato) fatti non corrispondenti al vero in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari della comunicazione sociale sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, alterando in modo sensibile la rappresentazione economico-patrimoniale-finanziaria col superamento delle soglie di rilevanza previste dalla legge, non adottando i provvedimenti di cui all’art. 2446 c.c., concorrevano a cagionare il dissesto della società la quale, avendo in realtà ridotto per l’anno 2005 il capitale sociale di oltre un terzo e avendo azzerato il capitale sociale nel 2006, – circostanze tutte occultate dalle false comunicaizoni sociali che si sono susseguite dal 2005 alla data del fallimento – continuava l’attività di impresa senza mezzi propri aggravando il dissesto“.
Avverso la pronuncia, dunque, sono stati presentati dagli imputati due differenti ricorsi adducendo svariati motivi, ma in questa sede ci concentreremo su quelli di interesse.

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2. Revisori nella bancarotta societaria: l’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione analizza i ricorsi giunti alla sua valutazione inquadrando, dapprima, il delitto di bancarotta societaria e l’evoluzione dello statuto penale dei revisori.
L’art. 223, co.2, n. 1), l. fall. punisce gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 c.c.
In forza dell’art. 110 cod. pen. anche l’extraneus (es. dipendente, collaboratore, professionista esterno) può concorrere nel reato con il soggetto qualificato fornendo un consapevole contributo morale (es. istigazione, determinazione, rafforzamento dell’altrui proposito criminoso) o materiale (es. predisposizione del bilancio falso) alla realizzazione dell’illecito in presenza della necessaria componente soggettiva.
Ad avviso della Corte, “il reato societario deve perfezionarsi in tutte le sue componenti oggettive e soggettive. Invero i reati societari sono richiamati con tutti i loro schemi, anche psicologici, come definiti dal codice civile: per ‘fatti’ deve intendersi la ‘tipicità’ del reato, vale a dire l’insieme degli elementi fattuali descritti dal legislatore nell’ambito di una singola disposizione incriminatrice, all’interno della quale, dunque, trova posto anche il dolo“.
Si tratta, comunque, di reato di evento, nel senso che, a differenza delle ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria, che sono reati di pericolo, nella fattispecie in rassegna il dissesto è evento del reato che, come tale, deve essere causalmente ricollegabile ai reati presupposti e investito del necessario elemento soggettivo.
Quanto all’elemento soggettivo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto“.
Sotto il profilo soggettivo, invece, si è affermato che, “in tema di bancarotta impropria da reato societario, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico“.
Giungiamo, dunque, all’analisi sulla responsabilità penale dei revisori.
Innanzitutto, vi è da premettere che il revisore esula dal novero dei soggetti qualificati ex art. 223, l. fall., sicché può essere chiamato a rispondere del reato di bancarotta societaria soltanto in veste di estraneo, secondo le norme generali sul concorso.
L’evoluzione normativa dello statuto penale dei revisori è tracciata dalle Sezioni Unite Deloitte Touche Spa (n. 34476/2011): “le falsità incidenti sulle comunicazioni e relazioni delle società di revisione furono introdotte nel nostro ordinamento penale dall’art. 14 d.p.r. 31 marzo 1975, n. 136 (norma diretta a garantire la fedele certificazione obbligatoria di bilancio). Il d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, T.U.F.) rimodulò la condotta mediante l’art. 175. Il riordino normativo dei reati societari, portato dal d. lgs. 11 aprile 2002, n. 61, comportò la riformulazione dell’art. 2624 cod. civ.. La legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizini per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) riportò alcune disposizioni relative ai revisori contabili in seno al T.U.F., con la formulazione dell’art. 174-bis, pertinente alle società quotate in borsa (o a società da queste controllate ed a società che emettono strumenti finanziari diffusi tra il pubblico in misura rilevante) creando, in tal modo, un doppio binario repressivo rispetto all’art. 2624, norma destinata a reprimere il solo mendacio reso nella revisione contabile relativa a società comuni ed articolata in reato contravvenzionale (di pericolo) ed in fattispecie delittuosa, caratterizzata dalla causazione di danno patrimoniale per i destinatari del messaggio infedele dei revisori (precetti tra loro differenziati anche relativamente al momento soggettivo)“. A siffatti quadro è succeduto il d. lgs. 27 gennaio 2010, n. 39.
Ad avviso della Suprema Corte, la condotta in questione “può realizzarsi sia affermando il falso sia occultando informazioni vere. Si parla, nella seconda ipotesi, di ‘falso per omissione’, ma è bene chiarire sin d’ora che, al di là della terminologia utilizzata, viene in rilievo, comunque, una condotta che giuridicamente deve definirsi ‘attiva’ e non ‘omissiva’, poiché si concreta sempre e comunque in una azione: la stesura di una relazione“.

3. La decisione della Cassazione

Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione si avvia alle conclusioni relative al caso di specie, chiarendo che “la natura commissiva del fatto accertato è rivelata dalla circostanza che i giudici di merito ricavano l’omissione, cui fanno precipuo riferimento, volgendo ‘in negativo’ la condotta attiva: aver omesso di redigere una relazione veritiera significa aver redatto una redazione falsa; ‘non aver espresso un giudizio negativo’ vuol dire aver espresso un giudizio positivo sapendolo falso“.
Tuttavia, osserva la Corte, quando i giudici si sforzano di individuare obblighi diversi da quelli attinenti ai contenuti della relazione, riescono solo a indicare profili marginali e privi di rilevanza o perché postulano obblighi insussistenti, o perché si riferiscono a mancate comunicazioni ad amministratori o sindaci la cui rilevanza causale è pressoché nulla dato che, nel presente processo, tutti i potenziali destinatari della segnalazione sono i principali autori del reato.
Inoltre, la Corte osserva che nel caso in rassegna, le sentenze di merito sono dotate di un’ampia ed esaustiva esposizione degli elementi di prova raccolti – non suscettibile di ulteriore arricchimento – dalla quale non emergono concreti elementi a sostegno di un contributo partecipativo dei revisori nel reato proprio di amministratori (se non come cenni meramente assertivi a una “inevitabile conclusione”); d’altronde “il tentativo di costruire un concorso per omissione non avrebbe avuto ragion d’essere se fossero state disponibili prove di un accordo preventivo tra amministratori e revisori“.
Infine, con riguardo al reato di bancarotta impropria da reato societario di falso in bilancio, la Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire che “l’elemento soggettivo presenta una struttura complessa comprendendo – oltre alla consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico – il dolo generico (avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (profitto ingiusto) ed il dolo intenzionale di inganno dei destinatari“.
E si è evidenziato che “il pregiudizio interessato dal dolo del reato fallimentare non sempre coincide con la volontà di danno supposto dalla norma penal/societaria, sicché non necessariamente la dimostrazione del dolo specifico del reato societario esaurisce l’onere probatorio sul momento soggettivo della bancarotta di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1, l. fall.“.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti degli imputati per non aver commesso il fatto.

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Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2023

 

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