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Nella specie, i rimettenti riferiscono che, nel corso di alcune procedure di liquidazione controllata, i liquidatori hanno depositato programmi concernenti l’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura delle procedure. I giudici a quibus ritengono che tale acquisizione sia consentita in virtù dell’applicabilità alla liquidazione controllata di quanto previsto, per la liquidazione giudiziale, dall’art. 142, comma 2, CCII. Nondimeno, ritengono di non poter provvedere a riguardo, senza un previo intervento che colmi la lacuna normativa concernente la mancata previsione di una durata minima per l’acquisizione dei beni sopravvenuti. Invero, l’«ordito normativo» non consentirebbe di individuare una durata minima riferita all’apprensione dei beni sopravvenuti, ma solo un limite temporale massimo, identificato nel tempo strettamente necessario alla copertura delle spese della procedura. I rimettenti prospettano, quindi, una pronuncia additiva, indicando la disciplina di cui all’art. 14undecies della l. n. 3/2012 e, dunque, il termine di quattro anni per l’apprensione dei beni del debitore, che pervengono nel corso della procedura.

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Le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate.

I giudici rimettenti censurano la norma secondo cui alla liquidazione controllata si possono ascrivere anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura. Il profilo su cui si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale attiene alla mancata indicazione della durata del meccanismo acquisitivo.

La citata norma viene tratta dalla disciplina dettata per la liquidazione giudiziale dall’art. 142, comma 2, CCII, secondo il quale sono in essa ricompresi «i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi»; in particolare, i giudici a quibus ritengono che l’art. 142, comma 2, CCII trovi applicazione non solo alla liquidazione giudiziale, ma anche alla liquidazione controllata.

In via preliminare, la Consulta precisa che la norma censurata non sia desumibile necessariamente da quanto dispone, per la liquidazione giudiziale, l’art. 142, comma 2, CCII, ma può essere, altresì, dedotta da quanto prevede, direttamente per la liquidazione controllata, l’art. 268, comma 4, lettera b), CCII. Quest’ultima disposizione stabilisce che non sono ricompresi nella procedura «i crediti aventi carattere alimentare e di mantenimento, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività nei limiti, indicati dal giudice, di quanto occorre al mantenimento suo e della sua famiglia».

A contrario, la norma, dunque, riconosce che alla procedura si possono ascrivere le quote di stipendi e pensioni che eccedano «quanto occorre al mantenimento» del debitore «sovraindebitato e della sua famiglia», vale a dire prestazioni periodiche, corrispondenti a crediti esigibili nel tempo.

Del resto, la possibilità di ascrivere alla procedura della liquidazione controllata anche i beni sopravvenuti, salve le eccezioni indicate dall’art. 268, comma 2, CCII, si pone in piena sintonia con quanto dispone, in generale, l’art. 2740 c.c., in base al quale «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri».

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Quanto al profilo attinente all’omessa previsione di un termine di durata minima della apprensione dei beni sopravvenuti, che sia idoneo a preservare le ragioni creditorie, i giudici a quibus lamentano la mancata riproduzione, nella disciplina della liquidazione controllata introdotta dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di una disposizione analoga a quella che l’art. 14undecies l. n. 3/2012 prevedeva con riguardo alla liquidazione del patrimonio. Invero, in base a tale disposizione, costituivano oggetto della liquidazione del patrimonio anche i «beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione di cui all’articolo 14-ter […] dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi». Correlativamente, l’art. 14quinquies, comma 4, della l. n. 3/2012 disponeva che la «procedura rimane[sse] aperta sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, ai fini di cui all’articolo 14-undecies, per i quattro anni successivi al deposito della domanda», così come l’art. 14novies, comma 5, stabiliva che, «[a]ccertata la completa esecuzione del programma di liquidazione e, comunque, non prima del decorso del termine di quattro anni dal deposito della domanda, il giudice dispone[sse], con decreto, la chiusura della procedura».

A fronte della denunciata lacuna e, in particolare, della mancata previsione di una durata minima di acquisizione dei beni pervenuti al debitore dopo l’apertura della procedura di liquidazione controllata, i giudici rimettenti assumono, quale presupposto interpretativo, quello secondo cui, non potendosi prospettare una apprensione «vita natural durante» dei beni sopravvenuti del debitore, sarebbe comunque necessario individuare un limite temporale.

In particolare, i giudici a quibus escludono che esso possa essere mutuato dall’istituto dell’esdebitazione, in quanto non sempre applicabile. In ogni caso, ritengono tale riferimento temporale inidoneo a garantire una durata minima di acquisizione dei beni sopravvenuti tale da preservare le ragioni creditorie.

Parimenti, escludono che la durata dell’apprensione si possa modellare sul tempo necessario a garantire una minima soddisfazione del ceto creditorio, sia poiché ne discenderebbe un potere arbitrario in capo ai liquidatori, sia perché il termine potrebbe eccedere la ragionevole durata della procedura, con il rischio che i creditori, avvantaggiati dalla prolungata apprensione dei beni sopravvenuti, possano poi anche pretendere l’indennizzo per irragionevole durata della procedura stessa.

Viceversa, reputano necessitata la ricostruzione in via ermeneutica del limite temporale costituito dalla durata strettamente necessaria a coprire le spese della procedura, norma sulla quale appuntano le censure di illegittimità costituzionale.

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Il presupposto interpretativo è errato nei suoi vari passaggi argomentativi.

Anzitutto, non è corretto ritenere che non si possa colmare l’asserita lacuna concernente la mancata previsione di un termine di acquisizione dei beni, che pervengono al debitore nel corso della procedura, con un criterio idoneo a fornire adeguate garanzie ai creditori.

Difatti, il parametro di riferimento deve essere costituito proprio dal soddisfacimento dei crediti concorsuali e di quelli aventi a oggetto le spese della procedura, coerentemente con la funzione dell’istituto della liquidazione controllata, correlata alla responsabilità patrimoniale del debitore.

L’apertura della liquidazione controllata introduce, in particolare, «il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore» (art. 151 CCII, richiamato dall’art. 270, comma 5, dello stesso CCII), i cui beni compresi nella procedura devono soddisfare le ragioni creditorie.

Al contempo, il parametro che guarda alla realizzazione di tali pretese, oltre che all’adempimento delle spese della procedura, deve coordinarsi con due ulteriori istanze: da un lato, deve raccordarsi con l’istituto della esdebitazione (che comporta una responsabilità patrimoniale contenuta nel tempo e, pertanto, limita l’apprensione dei beni sopravvenuti del debitore); dall’altro, va considerata l’esigenza di porre un limite alla durata della procedura concorsuale, che indirettamente si riverbera sulla durata del meccanismo acquisitivo, in quanto il procedimento giurisdizionale non può protrarsi per una durata irragionevole, tanto più ove si consideri che la sua apertura inibisce ogni azione individuale esecutiva o cautelare (art. 150 CCII).

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Quanto all’esdebitazione, tale istituto «comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata» (art. 278 CCII). La sua finalità è quella «di “ricollocare utilmente [il debitore] all’interno del sistema economico e sociale, senza il peso delle pregresse esposizioni” (sentenza n. 245 del 2019)»[1].

Nel solco del diritto unionale, l’istituto sacrifica le residue ragioni creditorie (comportando una responsabilità patrimoniale limitata nel tempo) onde consentire a debitori non immeritevoli una “ripartenza” (il cosiddetto fresh start). L’accesso a tale istituto presuppone che il beneficiario non abbia «determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode» (art. 282, comma 2, CCII) e che ricorrano le condizioni previste dall’art. 280 CCII[2]. In presenza dei citati presupposti, l’esdebitazione opera di diritto a seguito del provvedimento di chiusura della procedura di liquidazione controllata e, in ogni caso, decorsi tre anni dalla sua apertura (art. 282, comma 1, CCII), in linea con quanto prevede il diritto dell’Unione europea[3].

Se, dunque, l’esdebitazione pone un limite temporale massimo alla apprensione dei beni sopravvenuti del debitore, poiché incide sulle stesse ragioni creditorie, d’altro canto, in presenza di crediti concorsuali non ancora soddisfatti prima del triennio, essa finisce per operare anche quale termine minimo.

Ove, infatti, per adempiere ai debiti relativi ai crediti concorsuali e a quelli concernenti le spese della procedura sia necessario acquisire i beni sopravvenuti del debitore (compresi i crediti futuri o non ancora esigibili), i liquidatori[4]sono tenuti a prevedere un programma di liquidazione che sfrutti tutto il tempo antecedente alla esdebitazione e che, dunque, sia di durata non inferiore al triennio. Viceversa, l’ingiustificato sacrificio delle ragioni creditorie tradirebbe la funzione stessa della liquidazione controllata e derogherebbe al criterio di base che deve orientare la durata del meccanismo di apprensione dei beni, costituito dal pagamento dei debiti relativi ai crediti concorsuali, oltre che delle spese della procedura.

Di conseguenza, ben potrebbe il giudice delegato sindacare in sede di approvazione, ai sensi dell’art. 272, comma 2, CCII, un programma di liquidazione che stabilisca un termine di acquisizione dei beni sopravvenuti di durata inferiore a quella derivante dal meccanismo della esdebitazione, ove tale termine lasci parzialmente insoddisfatte le ragioni dei creditori concorsuali.

Pertanto, fintantoché vi siano debiti da adempiere nell’ambito della procedura concorsuale, il termine triennale correlato all’esdebitazione finisce per operare (diversamente da quanto assumono i giudici rimettenti) non solo quale termine massimo, ma anche quale termine minimo di apprensione dei beni sopravvenuti del debitore.

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Venendo al secondo passaggio argomentativo dei giudici rimettenti, deve ritenersi inesatto anche quanto sostengono per confutare che la durata di apprensione dei beni sopravvenuti del debitore possa dipendere dall’esigenza di soddisfare i diritti dei creditori concorsuali, oltre che di adempiere alle spese della procedura.

In particolare, non è corretto sostenere che, applicando tale criterio, i liquidatori possano (nei casi in cui non trovi applicazione il limite temporale derivante dall’esdebitazione) prevedere un programma di liquidazione che esorbiti rispetto alla ragionevole durata della procedura, determinando l’effetto di consentire ai creditori, avvantaggiati dal suo protrarsi, di poter anche conseguire l’indennizzo per irragionevole durata della procedura stessa.

In realtà, i liquidatori, se, da un lato, devono tendere alla massima soddisfazione delle ragioni creditorie, da un altro lato, sono tenuti a rispettare la prescrizione dell’art. 272, comma 3, CCII, secondo la quale «[i]l programma [di liquidazione] deve assicurare la ragionevole durata della procedura».

Tale paradigma si determina tenendo conto sia di elementi concreti, a partire dalla complessità della procedura liquidatoria e dalla stessa possibilità di acquisire beni sopravvenuti, sia di indici normativi[5].

In sostanza, il criterio della massima soddisfazione delle ragioni creditorie, lungi dal confliggere con l’esigenza della ragionevole durata della procedura (come ritengono i giudici rimettenti) deve essere, viceversa, con essa contemperato.

L’organo liquidatore deve, sotto la supervisione del giudice delegato in sede di approvazione del programma, determinare il tempo di acquisizione dei beni sopravvenuti, perseguendo l’obiettivo della maggiore soddisfazione possibile delle ragioni creditorie, nel rispetto della ragionevole durata della procedura stessa.

Resta fermo che la chiusura della liquidazione controllata, a differenza della esdebitazione, non fa venire meno la responsabilità patrimoniale, ma consente ai creditori di riacquistare il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte dei loro crediti rimasta eventualmente insoddisfatta.

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Da ultimo, è altresì erroneo individuare, nel tempo strettamente necessario a coprire le spese della procedura di liquidazione controllata, il suo limite temporale massimo.

In primo luogo, tale criterio non si desume da un diritto vivente formatosi rispetto all’istituto della liquidazione controllata[6].

In secondo luogo, non è corretto affermare che il tempo strettamente necessario a recuperare le spese della procedura possa ritenersi un termine massimo di durata della procedura stessa.

Se è vero, infatti, che, in base all’art. 146 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», le spese della procedura fallimentare (oggi procedura di liquidazione giudiziale), anticipate dall’erario o prenotate a debito (commi 2 e 3), «sono recuperate, appena vi sono disponibilità liquide, sulle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo» (comma 4), nondimeno, la loro copertura non basta certo a esaurire gli scopi per i quali la procedura concorsuale è stata aperta.

La liquidazione giudiziale, così come la liquidazione controllata che viene in considerazione nel presente giudizio, è finalizzata a liquidare il patrimonio del debitore a beneficio dei creditori concorsuali, sicché il criterio costituito dal tempo necessario a coprire le spese della procedura non identifica in alcun modo un implicito termine di durata massima della medesima.

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Evidenziato il carattere erroneo dei diversi passaggi ermeneutici che compongono il presupposto interpretativo dei rimettenti, risulta evidente la non fondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

Anzitutto, non sussiste alcuna irragionevole lesione del diritto alla tutela delle ragioni creditorie, per effetto del presunto limite temporale costituito dalla durata strettamente necessaria alla copertura delle spese di procedura.

D’altro canto, la mancata previsione nella norma censurata di un termine fisso per l’apprensione dei beni sopravvenuti non comprime irragionevolmente la tutela dei creditori.

Parimenti, non sussiste alcuna irragionevole disparità di trattamento fra la disciplina censurata, per come ricostruita dai giudici rimettenti, e quella prevista dall’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012[7].

Per un verso, non è corretto ritenere che la mancata previsione di un termine fisso debba essere integrata dal riferimento al tempo strettamente necessario alla copertura delle spese della procedura. Per un altro verso, rientra nella discrezionalità del legislatore sostituire un termine “fisso” con un termine che si plasma sulle concrete esigenze che emergono, nella singola procedura, a tutela dei creditori. La durata dell’apprensione dei beni sopravvenuti dipende, infatti, dall’ammontare delle risorse complessive disponibili e dall’entità dei crediti concorsuali, oltre che delle spese di procedura, fatto salvo il limite temporale desumibile dall’istituto dell’esdebitazione e fermo restando il rispetto della ragionevole durata della procedura.

 

 

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[1] Cfr. Corte Cost., sentenza n. 65/2022.

[2] Il debitore non deve essere stato «condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, o altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa»; non deve aver «distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito»; non deve aver «ostacolato o rallentato lo svolgimento della procedura» e deve aver «fornito agli organi ad essa preposti tutte le informazioni utili e i documenti necessari per il suo buon andamento»; non deve aver «beneficiato di altra esdebitazione nei cinque anni precedenti la scadenza del termine per l’esdebitazione» e non deve aver «già beneficiato dell’esdebitazione per due volte».

[3] V. art. 21, comma 1, della direttiva 2019/1023/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132, riferito alla esdebitazione dell’imprenditore, e considerando n. 21 della medesima direttiva, che auspica un’estensione dell’istituto anche al consumatore.

[4] Salvo che riescano a soddisfare integralmente i citati crediti tramite la vendita di beni futuri o la cessione di crediti futuri o non ancora esigibili.

[5] Fra i quali, oltre alla previsione generale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), si segnala – da parte degli interpreti – il termine quadriennale, desumibile dall’art. 282 CCII, che si adatterebbe a una procedura “minore”, rispetto alla procedura “maggiore” della liquidazione giudiziale, per la quale il tempo della liquidazione non può eccedere il termine di cinque o sette anni, a seconda della sua complessità (art. 213, comma 5, CCII).

[6] Al più (come gli stessi giudici a quibus riconoscono) può configurarsi quale interpretazione che parte della giurisprudenza di merito, compreso il Tribunale rimettente, ha riferito, in passato, all’art. 42 della legge fallimentare.

[7] Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «il criterio di discrimine nella applicazione di diverse discipline normative basato su dati cronologici non può dirsi, a meno che non sia affetto da manifesta arbitrarietà intrinseca, fonte di ingiustificata disparità di trattamento, poiché […] lo stesso naturale fluire del tempo è valido elemento diversificatore delle situazioni giuridiche (fra le ultime si vedano le sentenze n. 273 del 2011 e n. 197 del 2010 nonché le ordinanze n. 31 del 2011 e n. 61 del 2010)» (ordinanza n. 49 del 2012 proprio in materia di esdebitazione, nonché, in altri ambiti, le sentenze n. 92 del 2021, n. 104 del 2018, n. 53 del 2017 e n. 254 del 2014).

 

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