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Uno dei rischi più temuti quando non è più possibile rimborsare i debiti con regolarità è senza dubbio quello di perdere i propri averi a causa del pignoramento.
In linea generale il pignoramento è un atto giuridico compiuto da un creditore, con cui si procede all’individuazione e alla “immobilizzazione” di beni appartenenti al debitore, al fine di soddisfare un credito non ancora estinto. Più nel dettaglio, a norma del codice di procedura civile il pignoramento consiste nell’atto formale di espropriazione forzata di un bene, con successiva vendita, in modo da pagare i debiti del cittadino interessato (art. 491).

L’Amministrazione finanziaria, ovvero l’Agenzia delle entrate, dal canto suo, prevede un’azione di pignoramento quando vengono a mancare i dovuti riscontri alla notifica di cartelle esattoriali o avvisi bonari, contenenti l’invito al pagamento di tasse, imposte e tributi, in un termine prestabilito.

I riferimenti normativi si rinvengono nel D.P.R. 602/1973 e nella specie rilevano i seguenti articoli:


Ma se il debitore è nullatenente può ritenersi effettivamente libero dalla rete dei debiti? E quando si è nullatenenti?

Innanzitutto occorre chiarire che nullatenente è colui che risulti anonimo per l’Amministrazione finanziaria, nel senso che non deve figurare nelle due principali banche dati dell’Agenzia, ovvero l’Anagrafe tributaria e l’Anagrafe dei conti correnti.
Al riguardo sembra utile ricordare che nell’Anagrafe tributaria sono riportati tutti i dati che riguardano un soggetto che percepisce redditi, sotto qualsiasi forma (redditi fondiari, da locazione, da lavoro dipendente o autonomo, redditi di capitale o redditi diversi), mentre nell’Anagrafe dei conti correnti figurano tutti i soggetti che hanno un conto corrette o altri depositi, intestati a proprio nome all’interno di un istituto bancario o alle poste.
Va anche aggiunto che tutte le comunicazioni inviate dagli operatori finanziari dell’Anagrafe tributaria (sezione Archivio dei rapporti finanziari), relative ai rapporti continuativi, alle operazioni di natura finanziaria e ai rapporti di qualsiasi genere, previste dal citato D.P.R. 605 del 1973 (art. 7, comma 6), rientrano nella nozione di documento amministrativo, di cui all’art. 22 e di conseguenza sono accessibili trattandosi di atti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per l’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, ancorché non formati da questa.

Quindi è così semplice? È sufficiente far sparire i propri conti correnti o fare donazioni per non pagare le tasse?

Le cose non stanno proprio così. Esistono infatti istituti giuridici che mirano a tutelare i diritti dei creditori e fra questi rileva l’azione revocatoria. Si tratta di uno strumento giuridico che consente ai creditori di annullare gli atti compiuti dal debitore, come appunto le donazioni, se posti in essere allo scopo di sottrarre patrimonio alla portata dei creditori, pregiudicando i loro diritti (cfr. artt. 2901 e2929) del codice civile. L’azione revocatoria può essere esercitata entro cinque anni dalla data in cui l’atto è stato compiuto, che diventano dieci se il creditore dimostra che il donatario era in malafede. Se l’azione revocatoria è accolta, l’atto di donazione è inefficace e i beni rientrano nel patrimonio del debitore, diventando quindi aggredibili dai creditori.
Lo scopo di tale azione è dunque quello di far dichiarare l’inefficacia degli atti di disposizione patrimoniale con cui il debitore ha arrecato pregiudizio alle ragioni del suo creditore in presenza tuttavia di alcuni presupposti:
1) un atto di disposizione con il quale il debitore modifichi la sua situazione patrimoniale;
2) il pregiudizio per il creditore derivante dal fatto che il patrimonio del debitore divenga incapiente o renda più difficile o rischioso l’eventuale soddisfacimento coattivo del credito;
3) la frode, ossia la conoscenza del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore.

Secondo l’ordinanza n. 23907/2019 della Cassazione civile, l’onere di dimostrare le modificazioni della garanzia patrimoniale grava sul creditore, mentre il debitore è tenuto a provare che il suo patrimonio residuo è in grado di soddisfare le ragioni del creditore. La prova della partecipazione alla frode da parte del terzo, nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente. L’apprezzamento di tali presunzioni è devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato.
Pertanto solo se il bene donato è stato successivamente venduto da parte del donatario a un terzo in buona fede, l’azione revocatoria non può avere effetto nei confronti di questo terzo. Oltre alle donazioni, altri atti possono essere soggetti a revocatoria, come la vendita di beni a prezzi inferiori al valore di mercato o la costituzione di diritti reali a favore di terzi.



 

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