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 A cura di Claudia Camagni

  1. Dato normativo

Le impugnazioni del decreto del giudice delegato che rende esecutivo lo stato passivo nella liquidazione giudiziale vengono disciplinate dagli artt. 206 e 207 CCII (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), i quali, in linea di massima e salvo alcune modifiche, confermano ciò che era già previsto nella precedente Legge Fallimentare [1] agli artt. 98-99.

I tre rimedi previsti, ossia l’opposizione, l’impugnazione dei crediti ammessi e la revocazione (di natura straordinaria rispetto ai primi due) che, se esercitati, danno il via alla fase eventuale della procedura, condividono la medesima disciplina e sono tutti e tre esperibili davanti al tribunale concorsuale, la cui competenza territoriale è individuata alla luce del c.d. COMI (centro degli interessi principali del debitore).

 

  1. Dibattito circa la natura giuridica dell’istituto

La natura di tali istituti è stata per molto tempo dibattuta: una parte della dottrina affermava la natura di gravame, mentre un’altra quella di giudizio di primo grado dato il carattere sommario della fase ad essa precedente di accertamento del passivo e dei diritti dei terzi. Nonostante risulti prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, la prima qualificazione [2], la seconda presenta dei tratti di non poco momento che fondano le considerazioni che si andranno ad argomentare nel seguente articolo.

L’identificazione dell’impugnazione come primo grado di giudizio parte da un’analisi della fase necessaria della liquidazione giudiziale, ossia l’accertamento dello stato passivo posto in essere dal curatore. Questa fase presenta, infatti, una lacuna garantistica per i creditori in quanto, per esigenze di celerità proprie della procedura, viene compresso un pieno esercizio del diritto di prova. Da qui la qualificazione dell’impugnazione come un ordinario giudizio di cognizione e, a sostegno di ciò, anche il fatto che la sommarietà del giudizio e la facoltatività della difesa tecnica dei creditori nell’accertamento mal si conciliano con la qualificazione di tale fase come un primo grado di giudizio.

Nonostante ciò, la Cassazione si è dimostrata, in precedenza, ma anche recentemente, sostenitrice della riconduzione dell’opposizione e degli altri rimedi al genus delle impugnazioni: in particolare con l’ordinanza n. 15884 del 17 maggio 2022 la Suprema Corte, trattando un caso di ammissibilità o meno di nuove domande in sede di opposizione, ha avuto modo di confermare nuovamente la natura impugnatoria di tale fase e la necessità di rispettare il principio dell’immutabilità della domanda.

Tale pronuncia si aggiunge ad una cospicua giurisprudenza che sottolinea come questi rimedi non siano assimilabili all’appello, evidenziando la non applicabilità della relativa disciplina e le molteplici differenze [3] come, ad esempio, il fatto che la fase dell’impugnazione non è retta dal principio devolutivo proprio del grado d’appello (diversamente comporterebbe il riesame di tutte le domande di ammissione al passivo con evidenti conseguenze irrazionali rispetto alla necessità di celerità) o che non può essere considerato appello in quanto è un giudizio che “mira a rimuovere un provvedimento emesso sulla base di una cognizione sommaria ed all’esito di un procedimento che non prevede la formalizzazione della posizione del curatore come parte processuale contrapposta al creditore…”[4].

Errata risulta quindi anche la tesi secondo la quale questa fase non possa essere qualificata come impugnatoria poiché non espressamente prevista all’art. 323 c.p.c., poiché, oltre a tali mezzi ordinari, nel nostro ordinamento vi sono molti altri rimedi che permettono di impugnare provvedimenti del giudice nonostante non siano indicati all’interno del Codice di procedura civile al suddetto articolo. Bisogna quindi soffermare l’attenzione sulle caratteristiche sostanziali piuttosto che su quelle formali degli istituti evitando prese di posizione repentine.

Inoltre, non pare possibile utilizzare la pienezza del contraddittorio come argomento a sostegno della natura di giudizio di primo grado, o almeno alla luce della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 5/06 non lo è più, visto che solo precedentemente il provvedimento adottato al termine dell’accertamento si caratterizzava quasi come “inaudita altera parte” [5] (non a caso il procedimento si caratterizzava per essere di natura inquisitoria e non contenziosa come lo sono attualmente sia la fase necessaria che la successiva fase eventuale).

 

  1. Thema probandum e thema decidendum

Tutto ciò considerato, potrebbe risultare mancante un grado di giudizio non essendo equiparabile l’opposizione al grado di appello e non potendo quindi applicare analogicamente la disciplina civilistica di quest’ultimo con tutto ciò che ne comporta, ma non bisogna dimenticare che nel nostro ordinamento è ben possibile che ci sia un unico grado di merito come un unico grado di legittimità e che non si dovrebbe commettere l’errore di leggere il grado di accertamento e di impugnazione con le categorie processual-civilistiche (che comunque in parte, e seppur con le opportune modifiche, vengono qui ripresentate insieme ovviamente ai principi generali del codice di rito, come il principio dispositivo) e stanziarsi su classificazioni per loro natura imprecise.

Quindi, nonostante l’art. 207 CCII (come in precedenza l’art. 99 L. Fall.) non preveda la possibilità di proporre nuove domande non avanzate in fase di accertamento, quali le domande riconvenzionali, facendo così rimanere immutato il thema decidendum, bisogna anche considerare che il pieno esercizio del diritto di difesa viene espressamente tutelato mediante la previsione (sempre al suddetto articolo) della facoltà di allegazione di nuovo materiale probatorio ed eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio.

Un possibile ampliamento del thema probandum permette così un pieno rispetto del principio del contraddittorio ed è anche conferma del fatto che il curatore, a seguito della riforma, viene illuminato con una luce differente: non più quella che lo vedeva solo come ausiliare o collaboratore del giudice delegato, ma ora anche quella di vera e propria parte processuale contrapposta ai creditori e con il riconoscimento della medesima posizione secondo quanto previsto dal principio della parità delle armi.

[1] Regio Decreto n. 267, 16 marzo 1942.

[2] Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 8246, 4 aprile 2013.

[3] Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 11026, 9 maggio 2013.

Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 11392, 1° giugno 2016.

[4] Cass. ord. n. 2677, 22 febbraio 2012.

Cass. Sez. I, ord. n. 15884, 17 maggio 2022.

[5] Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 6900, 22 marzo 2010.

 

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