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Il caso sottoposto all’esame del Consiglio di Stato trae origine dall’appello proposto dal proprietario di un immobile che, in data 10.12.2004, aveva presentato tre istanze di condono edilizio ai sensi del D.L. n. 269/2003 (convertito in L. 326/2003, c.d. Terzo condono edilizio).

Tali istanze, inizialmente accolte dal Comune (con provvedimenti di rilascio di condono edilizio nel marzo 2014), venivano poi annullate con successivi provvedimenti ad hoc adottati dal Comune stesso nell’esercizio del potere di autotutela.

In particolare, l’Amministrazione motivava tali provvedimenti adducendo che l’opera abusiva realizzata non fosse stata terminata entro il 31.03.2003, ossia il momento ultimo previsto dall’art. 32, comma 25 del D.L. n. 269/2003.

Pertanto, il proprietario adiva il TAR che, tuttavia, rigettava il ricorso. Avverso la sentenza del TAR veniva proposto appello innanzi – appunto – al Consiglio di Stato.

Come detto, nella sentenza n. 3361 del 12.04.2024 il Consiglio di Stato è ritornato sul tema del termine di ultimazione delle opere abusive.

In particolare, il Consiglio richiama sia l’art. 32, comma 25 del D.L. n. 269/2003 (che, come detto, fissa il termine di ultimazione delle opere al 31.03.2003), sia l’art. 31 della L. 47/1985 (c.d. Primo condono edilizio, espressamente richiamato dal D.L. del 2003) secondo cui un edificio nuovo può ritenersi “ultimato” quando presenti completata la copertura (intesa come qualsiasi chiusura superiore, come anche un solaio) e compiuto il rustico (intendendosi per quest’ultimo l’opera ultimata nel suo sviluppo perimetrale).

In particolare, infatti, il citato art. 31 della L. 47/1985, nello specificare ulteriormente il concetto di “ultimazione” dell’opera ai fini della sanatoria di un abuso,

– nella prima parte si riferisce a interventi realizzati “ex novo“, richiedendo l’esistenza di una struttura che ne definisca la loro rilevanza urbanistico-edilizia e consenta di identificarne la specifica natura: ad es., l’opera può dirsi ultimata laddove manchi delle sole finiture (infissi, pavimentazione, tramezzature interne), ma è completa nelle tamponature esterne, che ne determinano in concreto i volumi;

– nella seconda parte riguarda, invece, le opere interne a edifici già esistenti e quelle non destinate alla residenza, in relazione alle quali il concetto di completamento è riferito alla funzionalità dell’opera.

In ogni caso, come specificato nella sentenza in commento, “l’opera abusiva, per poter essere ritenuta ultimata, deve comunque presentare in modo inequivoco gli elementi strutturali tipici e caratterizzanti la tipologia cui la stessa appartiene: pertanto, l’esistenza dell’opera in termini strutturali, in modo tale che ne sia identificabile in modo inequivoco natura e tipologia, costituisce presupposto indispensabile per poter attribuire valenza alla sua funzionalità in quanto tale”.

Ebbene, il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3361/2024, ha ritenuto che non fosse stata provata l’avvenuta ultimazione dei lavori al 31.03.2003 e, pertanto, ha rigettato l’appello.

Sul punto, infatti, è bene precisare che l’onere della prova spetta al proprietario che ha presentato istanza di condono edilizio.

Difatti, per giurisprudenza consolidata, grava sul richiedente l’onere di provare l’esistenza dei presupposti per il rilascio del provvedimento in sanatoria, tra cui, in primis, la data dell’abuso perché solo egli può fornire tutti gli atti, documenti o – comunque – ulteriori elementi probatori che siano in grado di determinare (con ragionevole certezza) il completamento dei lavori alla data indicata dalla normativa di riferimento.



 

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