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Nel ddl Cybersicurezza, il deputato di Calenda Costa ha proposto la galera per i giornalisti che pubblicano notizie da fonte illecita. Il dem Ruotolo: «La destra odia la stampa, ci appelleremo all’Europa». Il leader M5s contro un editoriale sui suoi affari da avvocato

 

A due settimane dall’approvazione in via definitiva dell’European media freedom Act da parte del Consiglio dell’Unione europea, anche in Italia si torna a parlare di libertà di stampa. Con toni molto diversi, però.

Il regolamento europeo mira ad attuare misure di salvaguardia contro l’interferenza politica nelle decisioni editoriali dei fornitori di servizi mediatici sia privati che pubblici, ma anche a mettere in campo nuove tutele per la protezione dei giornalisti e delle loro fonti, garantendo la libertà e il pluralismo dei media.

In commissione Affari costituzionali e Giustizia alla Camera, invece, è all’esame il ddl sulla Cybersicurezza e gli emendamenti presentati vanno in direzione diversa non solo rispetto all’Unione europea, ma anche ad un altro disegno di legge.

Il carcere

Dentro il centrodestra, infatti, sembra in corso un cortocircuito: il ddl di Balboni, presentato proprio come quello che cancellerà il carcere per i giornalisti, ha ricevuto un emendamento del relatore di FdI, Gianni Berrino, che reintroduce invece il carcere fino a 3 anni e la multa fino a 120mila euro per «condotte reiterate e coordinate» di diffusione di notizie false. E lo stesso si sta facendo alla Camera, dove il centrodestra sembra ben propenso ad accogliere un emendamento al ddl Cybersicurezza presentato dal responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, che prevede il carcere da 6 mesi a 3 anni per chi divulga notizie che sa essere state acquisite in maniera illecita: «Va bene non prevedere il carcere ai giornalisti per la diffamazione, ma diritto di cronaca non significa immunità. Chi pubblica informazioni che sa essere state rubate attraverso fatti di reato, tipo accessi abusivi ai sistemi informatici o intercettazioni abusive, va punito, perché questo non è diritto di cronaca», ha detto.

Nella formulazione di Costa, questa nuova fattispecie di reato si applica a tutti i casi in cui non ci sia il concorso nel reato di accesso abusivo a sistema informatico, che è invece l’ipotesi per cui sono indagati i giornalisti di Domani nell’inchiesta sulla presunta fuga di notizie della procura di Perugia. Sulla stessa lunghezza d’onda è anche l’emendamento di Italia viva, a firma Maria Elena Boschi, mentre quello di Forza Italia va oltre, prevedendo per i giornalisti il reato di ricettazione e la pena da 2 a 8 anni.

Contrario a questa visione è il responsabile informazione del Pd, Sandro Ruotolo: «L’atteggiamento è quello di colpevolizzare i giornalisti che fanno il loro mestiere. È un atteggiamento da democratura, molto Viktor Orban e poco Altiero Spinelli». Un modo distorto di intendere lo stato di diritto: «I potenti non vogliono il controllo democratico attraverso l’informazione. Di qui l’odio per i giornalisti. Ci rivolgeremo all’Europa».

L’attacco di Conte a Domani

Non è solo al centrodestra che la libera informazione non piace. Ieri, infatti, anche il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, ha attaccato molto duramente il nostro quotidiano, criticando l’editoriale del direttore Emiliano Fittipaldi.

Nell’articolo, che riguarda la vicenda politico-giudiziaria in Puglia, si criticava l’ipocrisia di Conte nel rivendicare «la battaglia storica dell’onestà», nonostante anche i politici Cinque stelle siano in passato finiti in inchieste e lo stesso Conte «era uso – appena pochi mesi prima di entrare in politica – fare affari milionari collaborando senza fare un plissé con pregiudicati condannati in via definitiva per reati gravi». Un riferimento alla compravendita dell’hotel di lusso a Venezia Molino Stucky da parte dell’imprenditore pugliese Marseglia: Conte fu infatti artefice dell’operazione a cui lavorò anche l’architetto Arcangelo Taddeo, che da poco era stato condannato in primo grado a 17 anni di carcere per bancarotta fraudolenta, condanna ridotta a sette anni in Cassazione ma passata in giudicato nel 2017. «Taddeo fu scelto da Marseglia non da me» disse nel 2021 quando Domani scrisse la prima inchiesta «Quindi dovevo per principio evitare di lavorare all’operazione Molino Stucky con un condannato in bancarotta? Quindi un avvocato smette di fare l’avvocato?». Una domanda a cui un politico che usa (giustamente) la questione morale come core business della sua politica dovrebbe dare una sola risposta.

Secondo Conte «Fittipaldi mi ha già scritto articoli diffamatori divenendo megafono delle calunniose accuse di tal avvocato Amara», e «se lui riponesse nell’esercizio della professione di giornalista lo stesso rigore con cui io ho esercitato la professione di avvocato si sarebbe vergognato di scrivere tali calunnie», ha concluso. «Neppure questo ignobile articolo merita la mia rinuncia al rispetto della libertà di stampa».

Conte non ha mai smentito le ricostruzioni di Domani, che non si basavano sulle affermazioni di Amara al tempo tutte da verificare, ma su documenti che evidenziavano i pagamenti ottenuti da aziende gestite dalla famiglia Bellavista Caltagirone e dal lobbista Fabrizio Centofanti. Imprese finite in concordato preventivo e da cui Marseglia, con la consulenza di Conte e del bancarottiere Taddeo, comprò proprio il Molino Stucky.

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