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BARI. Le Ferrovie Sud-Est sarebbero fallite almeno dal 2004, se l’allora amministratore unico Luigi Fiorillo non avesse «inventato» un credito inesistente da 82 milioni che permise di tenere i bilanci in equilibrio ma anche di aggravare la situazione, accumulando 230 milioni di debiti e spingendo la società fino al baratro. Lo scrive il Tribunale di Bari (presidente Rosa Calia Di Pinto, estensore Antonio Donato Coscia) nelle 236 pagine di motivazioni della sentenza con cui, a marzo, i giudici hanno condannato Fiorillo, 63enne avvocato tarantino, a 10 anni di reclusione per bancarotta fraudolenta documentale e societaria, oltre che per bancarotta fraudolenta patrimoniale per dissipazione e distrazione insieme ad altre quattro persone, assolvendone altre nove, disponendo confische milionarie ma anche provvisionali a favore della stessa Fse, del ministero delle Infrastrutture e della Regione. Questo perché, secondo i giudici, Sud-Est era stata portata in uno stato persino più grave rispetto a quello della Grecia ai tempi del crac attraverso una «gestione di stampo clientelare»

La società «versava in una crisi gravissima, che si concretizzava in uno stato di squilibrio economico-finanziario così serio da render estremamente concreta l’eventualità non tanto del concordato, quanto dello stesso fallimento». I giudici hanno dunque riconosciuto la fondatezza dell’impostazione accusatoria del procuratore Roberto Rossi, che all’epoca dell’indagine era il procuratore aggiunto che coordinò un pool di pm con il consulente Massimiliano Cassano, e che ha seguito il processo insieme alla collega Desirèe Digeronimo. «A partire dal 2004 – secondo la sentenza – Fiorillo iscrisse in bilancio un credito che, molto semplicemente, non era un credito, ma una cosa ontologicamente diversa, cioè un interesse legittimo». E’ questa la «prima condotta di falsificazione dei bilanci ravvisabile in questa vicenda, e non si tratta – si badi – di un semplice falso valutativo: si tratta dell’annotazione di un dato oggettivamente falso». Allo stesso modo, il Tribunale ha chiarito non solo che Ferrovie Sud-Est deve essere considerata a tutti gli effetti «un organismo di diritto pubblico soggetto alla disciplina dei contratti pubblici», ma anche che gli imputati lo sapevano benissimo e dunque erano tenuti a osservare le regole previste per gli appalti pubblici.

Il caso nacque nel 2015, dopo una serie di articoli con cui la «Gazzetta» raccontò il caso dei «treni d’oro» di Ferrovie Sud-Est e poi le crescenti difficoltà operative della società che gestiva (e gestisce) la più importante ferrovia concessa pugliese. L’allora ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ne dispose il commissariamento facendo decadere Fiorillo che aveva guidato la società fin dalla sua fondazione. Una relazione predisposta su incarico del commissario Andrea Viero e dei subcommissari Domenico Mariani e Angelo Mautone fece emergere «le cause della crisi aziendale» di Fse. La relazione è uno dei capisaldi del processo.

« È emerso chiaramente – scrivono i giudici – che, nel caso di specie, il dissesto della società era di una gravità tale che la declaratoria di fallimento non era affatto un’eventualità peregrina, tant’è che il Pubblico Ministero aveva effettivamente presentato un’istanza in questo senso. Dal dibattimento, infatti, è emersa chiaramente l’incapacità di Fse di far fronte alle sue obbligazioni nei confronti dei fornitori e dell’ente concedente». Una situazione risolta dal ministero con il trasferimento di Fse al gruppo Fs, e poi con la presentazione di una istanza di concordato preventivo. E questa scelta, dicono i giudici, conferma da sola la gravità del «buco» creato nella società: «Pure la tesi, avanzata da alcune delle difese, secondo cui, in realtà, Fse all’epoca dei fatti non versava in uno stato di crisi o in un più grave stato d’insolvenza, prim’ancora che smentita dall’evidenza dei fatti, è priva d’ogni rilevanza giuridica ai fini della valutazione sulla responsabilità per i reati di bancarotta prefallimentare».

«Chi è venuto dopo Fiorillo – dice la sentenza – ha trovato una società in relazione alla quale utilizzare l’aggettivo “dissestata” è quasi un eufemismo, atteso che esso richiama una situazione di squilibrio anteriore alla rovina vera e propria, che, invece, nel caso di specie, aveva cominciato già a dispiegarsi». Il riferimento è a Viero e alla sua ricostruzione degli avvenimenti. Il commissario «ha avuto il pregio di averli rappresentati con franchezza, questi fatti, restituendo a chi l’ha ascoltato la descrizione, senza le ipocrisie che sovente caratterizzano le relazioni tra i dirigenti di imprese statali, del quadro desolante davanti al quale s’è trovato chi entrò nella sede della società, in via Amendola a Bari, all’alba dell’esautorazione di Fiorillo». I numeri erano impietosi: Fse incassava ogni anno tra i 130 e i 150 milioni (in gran parte soldi pubblici), e aveva accumulato debiti per 429 milioni di cui 318 milioni scaduti, con un patrimonio netto negativo per quasi 150 milioni. «Volendo tracciare un parallelo, il rapporto tra il Pil e il debito pubblico della Repubblica ellenica, all’epoca della crisi del suo debito sovrano, era significativa-mente migliore rispetto alla situazione in cui versava Fse».

Il Tribunale non ha invece condiviso che il ruolo dell’avvocato romano Angelo Schiano, comunque condannato a 4 anni per il concorso nella bancarotta, fosse quello dell’«amministratore occulto» di Fse. Non è stato sufficiente infatti dimostrare che tutte le e-mail gestionali relative alla società venissero girate all’indirizzo dello studio Schiano, né che i compensi da lui percepiti fossero addirittura superiori rispetto a quelli di Fiorillo. «Fse – scrivono però i giudici – affidò illegittimamente a Schiano un vero e proprio appalto di servizi legali avente un’estensione tale che l’imputato, di fatto, svolgeva le funzioni proprie di un ufficio legale aziendale».

Per quanto riguarda invece l’ingegnere salentino Vito Antonio Prato, destinatario di incarichi di progettazione milionari, il Tribunale ha riconosciuto che questi incarichi furono attribuiti in maniera illegittima, tanto che «la violazione della disciplina in materia di contratti pubblici comportò il mancato rimborso, da parte della Regione, delle spese sostenute da Fse per il loro pagamento», da cui la condanna a carico di Fiorillo. Tuttavia il professionista è stato assolto perché i compensi non sono risultati «manifestamente incongrui», e comunque lui non aveva «volontà deupaperatrice».

Anche per l’ex assessore regionale ai Trasporti, Fabrizio Camilli, accusato di dissipazione e distrazione per il contratto di fornitura dei carburanti da 14 milioni affidato da Fiorillo alla sua Svicat, il Tribunale ha ribadito che tutti gli appalti andavano affidati con procedura di evidenza pubblica e nel caso specifico questo non è avvenuto. Ma il collegio non ha ritenuto provato che il prezzo del gasolio fosse incongruo rispetto ai valori di mercato, e dunque ha assolto «perché il fatto non sussiste» sia l’imprenditore che Fiorillo.

Tutti gli imputati condannati presenteranno appello.

 

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