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La vicenda che ci occupa trae origine da una richiesta di restituzione somme a titolo di commissioni bancarie e costi di intermediazione non maturati per estinzione anticipata del contratto di mutuo al consumo.

La domanda attorea fu accolta in primo grado ma, a seguito dell’accoglimento dell’appello proposto dall’Istituto di credito, l’attore decise di adire la Suprema Corte di Cassazione.

Tralasciando, ai fini in esame, il primo motivo – peraltro dichiarato inammissibile – è interessante analizzare come la Corte di legittimità abbia accolto il ricorso sulla base di un ragionamento che pone quale elemento fondamentale la tutela del consumatore non solo alla luce delle disposizioni del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia ma anche e soprattutto alla luce delle direttive comunitarie.

Il fulcro è quindi costituito dal diritto del consumatore di estinguere anticipatamente il proprio contratto di credito al consumo e, ai sensi dell’art. 125sexies D.lgs. n. 385/1993, ottenere il rimborso delle somme spettanti in un’ottica di trasparenza e buona fede contrattuale.

Ciò posto, l’intervento della Suprema Corte, accogliendo il ricorso presentato dal consumatore, ha inteso specificare – o meglio confermare – il contenuto della dicitura “costo totale del credito” prendendo le mosse dall’ordinanza n. 25977 resa dalla Suprema Corte di Cassazione in data 06 settembre 2023 e, pertanto, ha ribadito quello che ritiene ormai una consolidata elaborazione giurisprudenziale in materia – derivante dalla definizione esportata dalla direttiva 90/88/CEE – secondo cui esso comprende necessariamente tutti i costi del credito e quindi anche gli interessi e le altre spese che il consumatore deve pagare per il finanziamento.

La fonte primaria, infatti, costituita dall’art. 125sexies TUB identifica la riduzione prevista con il mero importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del rapporto – escluse le imposte – ma se così fosse, o meglio se ci si limitasse a tale interpretazione letterale della norma, la tutela del consumatore sarebbe vanificata atteso che i costi e la relativa ripartizione costituiscono appannaggio esclusivo dell’Istituto di credito e quindi il consumatore rischierebbe di subire l’imposizione di pagamenti non ricorrenti più elevati al momento della conclusione del contratto.

La Suprema Corte, quindi, anche in virtù dell’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia nella c.d. sentenza Lexitor, nonché della più elevata esigenza di armonizzazione del mercato europeo, si spinge ad anticipare una eventuale doglianza in merito all’assenza di una norma secondaria quale la deliberazione del CICR in termini di integrazione della fonte primaria.

Ebbene, la Suprema Corte, sempre richiamando la recente ordinanza n. 25977 summenzionata, ha affermato testualmente quanto segue “anche in assenza di una norma attuativa del CICR, il consumatore non può essere privato del suo diritto al rimborso dei costi sostenuti, come previsto dalla norma primaria e dalle direttive citate. Se è vero, infatti, che le direttive hanno una efficacia diretta soltanto verticale e che lo stesse non possono essere invocate nelle controversie fra privati, è pur vero in senso opposto, che in ogni caso, il Giudice di merito è tenuto ad interpretare la normativa interna di recepimento in modo conforme al diritto europeo.”.

Ed ancora, dato l’intervento del CICR che ha demandato le modalità di rimborso ad una espressione di autonomia contrattuale, la Suprema Corte si è espressa sin da ora in termini di nullità di qualsivoglia clausola contrattuale che escluda il rimborso dei costi sostenuti poiché determinerebbe uno squilibrio dei diritti ed obblighi contrattuali in danno del consumatore.

A conferma della effettiva e necessaria tutela del consumatore è altresì da intendersi la sentenza della Corte Costituzionale n. 263 del 2022.

 

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