Utilizza la funzionalità di ricerca interna #finsubito.

Agevolazioni - Finanziamenti - Ricerca immobili

Puoi trovare una risposta alle tue domande.

 

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito
#finsubito news video
#finsubitoagevolazioni
Agevolazioni
Post dalla rete
Zes agevolazioni
   


Sommario: 1. Introduzione: la ratio della L. 533/1973. – 2. Gli attuali costi della giustizia del lavoro. – 2.1. Art. 92 c.p.c. Regolazione delle spese processuali. – 2.2.1. La sentenza della C. Cost. n. 77/2018. – 2.2.2. La questione fiscale. – 3. Il contributo unificato – 4. Costi del processo esecutivo ed effetto moltiplicatore. – 4.2. Le recenti riforme in materia di procedura esecutiva. – 5. Art. 614bis c.p.c. – Una tutela negata. – 6. Patrocinio a spese dello Stato.

1. Introduzione: la ratio della L. 533/1973.

Il tema dei costi dell’accesso alla giustizia è divenuto di preminente e crescente interesse per avvocati ed avvocate del lavoro e, in particolare, per le difese pro labour. Non possiamo nasconderci, infatti, che esso impatta in modo più significativo sul lavoratore, rispetto al datore di lavoro. E ciò per diverse ragioni su qui si cercherà di scrutinare.

Nel 50° anniversario del processo del lavoro, parlare di costi della giustizia giuslavoristica significa domandarsi cosa è rimasto dell’impianto voluto dal Legislatore del 1973.

Questa relazione ha offerto la preziosa occasione di rileggere testi e commenti di quegli anni e ricordare le istanze e i valori che avevano portato a concepire – solo per il diritto del lavoro – un processo ad hoc, speciale, caratterizzato da peculiari principi (concentrazione, oralità, identità del giudice, specializzazione del giudice, accertamento della verità fattuale, interesse pubblico all’applicazione del diritto del lavoro, gratuità) e quale era (ed è) la ratio della L. 533/1973. Richiamando questi principi, la migliore Dottrina ha parlato di “coraggiosa concezione chiovendiana del processo” (TARZIA).

Un processo, sia detto sin da subito, oggi se non radicalmente snaturato, che di certo si è “inceppato”, per usare le efficaci parole di FONTANA.

Il processo del lavoro, infatti, era stato concepito come strumento “tutelare” in un rapporto giuridico davvero peculiare, qual è quello di lavoro (subordinato e parasubordinato), e come sede di accertamento e riconoscimento di diritti che non hanno una dimensione soltanto individuale (rigorosamente legata alle singole parti in causa), ma anche sociale. Le istanze portate all’attenzione del giudice del lavoro, in altre parole, erano (e sono) istanze di gruppi sociali o che, comunque, riverberano su gruppi e rapporti sociali.

Attribuire una funzione “tutelare” al processo vuol dire, inoltre, approntare strumenti in grado di consentire alla parte debole del rapporto processuale (la parte, appunto, bisognosa di tutela) di sentirsi garantita dall’ordinamento (ancora FONTANA) e di potersi muovere nel riconoscimento di tale inferiorità e debolezza, anche contrattuale, rispetto all’altra parte.

Nell’ambito del diritto antidiscriminatorio, con una felicissima espressione, si parla di “diritto diseguale” perché, come noto, l’art. 3 della Cost. disegna l’eguaglianza non soltanto come parità di trattamento di situazioni simili, ma anche e soprattutto come dovere di non trattare in modo analogo situazioni tra loro differenti: principio di eguaglianza sostanziale.

Il processo del lavoro del 1973, in quest’ottica, è stato concepito proprio come “tutela differenziata” in attuazione del principio di effettività della stessa. Il processo, infatti, è un mezzo e non un fine e un diritto non effettivo – perché non adeguatamente tutelato – è un non diritto.

I principi fondanti la riforma del 1973 e su richiamati, tuttavia, risultano frustrati dalle più recenti riforme, che rispondono ad esigenze di deflazione, efficienza e asettica celerità del processo, più che a quelle di effettività della tutela dei diritti; esigenze che, peraltro, da un lato, mal si conciliano con la ratio della norma degli anni Settanta del secolo scorso, e, dall’altro – ad eccezione della prima – non sono stati ad oggi neppure raggiunti.

Sta di fatto che l’attenzione del Legislatore si è spostata dalla funzione tutelare (e di eguaglianza sostanziale) al formalismo e all’imperio delle norme di rito, che spesso si risolvono in meri ostacoli all’esercizio del diritto apparendo, sovente, fini a sé stessi. Il processo da sede di mediazione di conflitti sociali, si è trasformato in arena per confronti sempre più tecnici e, appunto, formali, dove la verità sostanziale e la materia del contendere non sempre giunge ad esame e, quando vi giunge, sconta ulteriori formalismi tipici del processo civile ordinario. In altre parole, il processo del lavoro è sempre più concepito, alla prova dei fatti, come un processo civile tra parti assolutamente eguali, cieco rispetto a quella strutturale e ontologica disparità sociale, economica, giuridica e anche processuale che caratterizza, viceversa, le parti del rapporto di lavoro subordinato e che si cercherà di esaminare nei suoi diversi aspetti.

In questa scia si colloca uno degli effetti più dirompenti dello snaturamento del processo del lavoro: la sua onerosità, tutta nuova, con azzeramento e tradimento del carattere cardine della gratuità, che consentiva l’accesso alla giustizia a tutti, anche alle categorie di lavoratori più soli e poveri e, dunque, rispondeva appieno all’esigenza di effettività più volte richiamata.

L’onerosità del processo è stata variamente e pervicacemente perseguita con le riforme degli ultimi 12-15 anni, in materia di: i) contributo unificato (d.l. 98/2011 art. 37 c. 6 lett. b), che modifica l’art. 9 DPR 115/2002), ii) condanna al pagamento del doppio del C.U. in caso di soccombenza (L. 228/2012), iii) svariate e successive modifiche all’art. 92 cpc, in tema di regolamento delle spese processuali (da ultimo, D.L. 132/2014), iv) riforme del processo esecutivo del 2014 e del 2021 (nuovo art. 26bis cpc e nuovo n. V dell’art. 543 cpc), v) contributo unificato anche per procedure esecutive e concorsuali (Circ. Min. 9/1/2023).

Ma non solo. Prima di esaminare distintamente i costi sopra elencati, è utile ricordare che hanno – per quanto indirettamente – reso più oneroso il processo del lavoro, sempre con particolare riferimento alla parte debole del rapporto, anche:

– l’introduzione del c.d. rito Fornero (art. 1 c. 48 e ss. L. 92/2012), che ha di fatto introdotto un grado di giudizio in più, con evidenti maggiori oneri e rischi per la parte ricorrente. Oggi, con sollievo degli operatori, abrogato;

– le riforme del giudizio in Cassazione: dal 2006 ad oggi. Da ultimo il d.lgs. 149/2022, per quanto rileva ai nostri fini, ha introdotto il nuovo art. 380bis cpc, che disciplina l’istituto della ‘proposta di definizione del giudizio’ e prevede la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 cc. 3 e 4 cpc a carico della parte che non aderisce alla proposta e (semplicemente) chiede la decisione della causa. Con evidente intento punitivo il Legislatore sembra aver voluto sanzionare il mero esercizio di un diritto. Di tale istituto si è già avuta una prima applicazione con la recentissima ordinanza Cass. n. 18351 del 27/6/2023.

2. Gli attuali costi della giustizia del lavoro.

Ma esaminiamo singolarmente le norme che hanno reso (particolarmente) oneroso il processo del lavoro e ne hanno sensibilmente compromesso l’effettività di tutela, sopra elencate.

2.1. Art. 92 c.p.c. Regolazione delle spese processuali.

Tradizionalmente la gratuità del processo del lavoro è stata intesa come applicazione ponderata del principio della soccombenza ed utilizzo dell’istituto della compensazione parziale o, più spesso, totale delle spese in favore del lavoratore-soccombente, mediante il richiamo ai “giusti motivi” di cui al comma 2 dell’art. 92 cpc.

Tale compensazione era intesa come espressione di quell’equità sostanziale e valorizzazione delle particolari condizioni personali delle parti.

Nel 2005, un primo intervento normativo ha imposto che i detti “giusti motivi” di compensazione fossero adeguatamente motivati del giudice. Mentre nel 2009 con la L. n. 69 la compensazione delle spese di lite è stata subordinata alla verifica (motivata) dell’esistenza di “gravi ed eccezionali ragioni”.

Di fatto, tuttavia, nelle prassi dei Tribunali non era cambiato molto si continuava a valorizzare la particolare condizione della parte più debole del processo e la sua posizione di inferiorità economica, sociale e processuale.

É con la riforma del 2014 (L. 162/2014) che, viceversa, si è avuto un netto cambio di passo, con l’azzeramento di ogni discrezionalità del giudice e la previsione della compensazione delle spese processuali in due soli tassativi casi: “assoluta novità della questione” e “mutamento giurisprudenziale rispetto ad una questione dirimente” (oltre all’ipotesi di soccombenza reciproca, passato indenne alle varie novelle).

La nuova disciplina è stata giustificata con la necessità di porre un freno alla sistematica compensazione delle spese di lite, diffusa nei Tribunali del lavoro. In verità, lo scopo ultimo era quello di deflazionare il contenzioso civile che aveva raggiunto, nel suo complesso, numeri francamente abnormi. Con la riforma indiscriminata e indifferenziata dell’art. 92 cpc, tuttavia, si sono equiparate le cause di lavoro a certo bagatellare contenzioso civile, ove la litigiosità non è di certo affermazione di conflitti sociali, né ha un rilievo pubblico equiparabile a quello proprio del diritto del lavoro.

L’effetto deflattivo si è senz’altro prodotto ed è stato anche importante: la Banca d’Italia stima nel 50% la riduzione del contenzioso tra il 2010 e il 2016 e il Ministero della Giustizia valuta come dimezzato anche il contenzioso del lavoro tra il 2012 e il 2021, con punte dell’80 – 90% in materie quali i contratti a termine e i licenziamenti. Nel nostro settore, però, ciò ha di fatto determinato un accesso differenziale alla giustizia: la deflazione, infatti, non ha avuto le stesse conseguenze su tutte le parti processuali, essendo – per svariate ragioni – significativamente più contenuto per la parte datoriale (che, peraltro, molto raramente avvia il giudizio e, dunque, trae ulteriore e indiretto vantaggio dall’inerzia del lavoratore).

L’intervento della C. Cost. del 2018 (con la nota sentenza n. 77/2018), oltre che tardivo, perché ormai nei Tribunali si erano instaurate prassi consolidate di automatica e, in alcuni casi, severa condanna al pagamento delle spese processuali, è stato solo parzialmente efficace, per quanto si dirà.

Ai sensi del nuovo art. 92 cpc, dunque, la regolazione delle spese, era svincolata da qualunque ponderazione discrezionale del magistrato, e legata esclusivamente al criterio fattuale della soccombenza. Mentre la compensazione era vincolata all’accertamento della sussistenza delle due tassative ipotesi sopra richiamate. Nessun rilievo veniva dato ad altre dirimenti circostanze di giustizia sostanziale quali, ad esempio:

– la diversa vicinanza alla prova e la indisponibilità della stessa in capo alla parte che spesso è gravata del maggior onere probatorio

– le diverse condizioni economiche delle parti

– il comportamento pre-processuale e processuale delle parti

– il differente regime fiscale dei contendenti.

All’indomani dell’entrata in vigore della riforma, alcuni Autori, confermando il carattere tassativo dell’elencazione di cui al comma 2 dell’art. 92, ne avevano evidenziato i profili di illegittimità costituzionale (tra i molti, SCARSELLI, SCARPELLI); per altri e per una parte della giurisprudenza, viceversa, la norma non escludeva il potere del giudice di compensare le spese in tutte le ipotesi di c.d. soccombenza “incolpevole”: mancando nella norma avverbi quali “solo”, “esclusivamente”, “soltanto” l’elencazione non poteva considerarsi tassativa ammettendo una interpretazione costituzionalmente orientata (così, Trib. Torino n. 2259 del 13/2/2017 – est. Mollo).

Altra parte della giurisprudenza, aderendo al primo indirizzo, aveva viceversa ritenuto la nuova disciplina costituzionalmente illegittima, sollevando pertanto le relative questioni anzi al giudice delle leggi: così il Tribunale di Torino, ord. 30/1/2016, est. Ciocchetti (secondo cui la norma che non lascia discrezionalità al giudice “scoraggia in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria (…) divenendo così uno strumento deflattivo incongruo”) e il Tribunale di Reggio Emilia, ord. 28/2/2017, est. Vezzosi (secondo cui la decisione sulle spese è sì la parte finale della pronuncia, “ma non di minor giustizia” e, pertanto, al giudice deve essere lasciata “la possibilità di valutare discrezionalmente le vicende oggettive e soggettive portate alla sua attenzione nel corso della causa ed a causa del processo”. Il Tribunale emiliano ha altresì lamentato la violazione dell’art. 3 c. 2 Cost. e delle norme sovranazionali in materia di parità di trattamento, sottolineando la disuguaglianza determinata dal mancato rilievo dato alle condizioni personali delle parti processuali nel processo del lavoro (e, in specie, del lavoratore).

Se, infatti, in genere il processo è strumento di esercizio e affermazione del diritto, il processo del lavoro è ‘più strumentale’ degli altri, proprio nell’ottica dell’affermazione di quella giustizia sostanziale, ampiamente sopra richiamata. Ne consegue che anche la pronuncia in materia di spese processuali risponde all’esigenza di effettività della tutela; esigenza particolarmente avvertita nel processo del lavoro, in cui l’attore è (quasi) sempre il lavoratore, cioè la parte che ha già subito gli effetti del provvedimento e/o comportamento datoriale oggetto di giudizio.

2.2.1. La sentenza della C. Cost. n. 77/2018.

La C. Cost. con la sentenza n. 77/2018 ha ribadito l’ampio potere discrezionale del Legislatore in materia di norme processuali e, dunque, anche in tema di regolazione delle spese di lite, ma ha ritenuto che la – evidente – tassatività delle ipotesi di compensazione (totale o parziale) delle stesse sia irragionevole nella misura in cui lascia fuori altre analoghe fattispecie di incertezza processuale. Fattispecie che, dunque – a parere della Corte – potranno essere valorizzate dal giudice benché soltanto con un procedimento di raffronto con quelle tipizzate dal Legislatore, che fungono da paradigma normativo.

La tassatività e il rigore della formulazione originaria dell’art. 92 cpc, viceversa, traducendosi in un indebito strumento deflattivo, per la Corte “può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti”.

Con riferimento alla specifica condizione processuale della parte debole, pur rimarcata dal Tribunale di Reggio Emilia, la Corte è stata, viceversa, tranchant nell’escludere che possa di per sé rilevare e che non tenerne conto possa considerarsi una violazione dell’art. 3 Cost.

La sentenza 77/2018, infatti, richiama più volte il principio della par condicio processuale di cui all’art. 111 Cost., e l’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente (secondo il principio del ‘chi perde paga’), seguendo una logica squisitamente formale; e nel rapporto tra l’art. 111 Cost. (eguaglianza formale) e l’art. 3 c.2 Cost. (eguaglianza sostanziale) sembra decisamente il primo a prevalere.

Tale pronuncia, dunque – che pur è stata accolta con favore per le aperture all’interpretazione analogica dei parametri di cui al comma 2 dell’art. 92 cit. – non dirime, tuttavia, la questione nevralgica della diseguaglianza sostanziale tra le parti nel processo del lavoro.

La Corte, infatti, sembra arrestarsi a valutazioni puramente astratte e del tutto disancorate dalla realtà socio-economica e giuridica in cui si muovono le parti del rapporto e del processo del lavoro e dalla disuguaglianza strutturale e normativa delle stesse.

Per convincersi di ciò, infatti, è sufficiente – ma necessario – ricordare che, nel rapporto di lavoro:

– una sola parte (il datore di lavoro) può unilateralmente modificare le condizioni esecutive del rapporto;

– i provvedimenti unilateralmente assunti dalla parte datoriale sono immediatamente efficaci ed immediatamente esecutivi ai danni dell’altra, senza necessità di ricorso al giudice, siano essi atti legittimi o illegittimi;

– le valutazioni delle esigenze aziendali, fatte – come ovvio – esclusivamente dal datore non devono essere comunicate o condivise con il lavoratore;

– la parte datoriale ha il potere di sanzionare l’altra e, financo, di soddisfare autonomamente le proprie pretese creditorie (ad esempio, trattenendo direttamente dalla retribuzione somme che assume dovutegli dal lavoratore);

– il lavoratore è costretto a munirsi di un titolo giudiziale per soddisfare qualsivoglia credito;

– il lavoratore non può sollevare l’eccezione di inadempimento, se non in casi ridottissimi (e a tutela di diritti fondamentali: v. art. 44 d.lgs. 81/2008);

– nel processo, il lavoratore è la parte onerata della prova nella maggior parte delle controversie e spesso non ha la disponibilità della stessa;

– già a monte, nell’attuale contesto economico, la sola parte datoriale ha la forza di decidere an, il quando e il quomodo nella stipula del contratto di lavoro e delle clausole più rilevanti.

Di tutto ciò la Corte non ha tenuto né dato conto, risolvendo la pur sollevata questione della debolezza economica del lavoratore con il richiamo agli strumenti di accesso alla giustizia per i non abbienti, approntati dall’ordinamento (gratuito patrocinio e – parziale – esenzione dal pagamento del contributo unificato per i percettori di redditi sotto una certa soglia).

La prova che tali strumenti non sono affatto idonei a calmierare l’effetto marcatamente deflattivo della condanna al pagamento delle spese processuali è dato dalla circostanza fattuale (dirompente) del crollo reale del contenzioso civile, e del contenzioso del lavoro in particolare, negli ultimi anni.

2.2.2. La questione fiscale.

Nella sentenza in commento, del tutto obliterata risulta, infine, la pur rilevante questione fiscale.

Il datore di lavoro–imprenditore, infatti, ha un regime fiscale significativamente diverso da quello del lavoratore-persona fisica, potendo dedurre dal reddito imponibile d’impresa il costo delle spese processuali (e addirittura detrarre per intero l’IVA così versata da quella dovuta al Fisco): si è valutato che, mentre l’importo delle spese grava sul lavoratore per il 100% (non essendo in alcuna misura deducibile dal reddito da lavoro dipendente o equiparato), per l’imprenditore la percentuale di costo effettivo si riduce sino ad arrivare anche al 50% di quanto effettivamente pagato, ed anche meno per le aziende medio-grandi, per effetto del sistema moltiplicatore del beneficio: più è alto il reddito e, quindi, l’aliquota fiscale, maggiore sarà il risparmio.

D’altra parte, anche in termini assoluti, il medesimo importo liquidato a titolo di spese processuali, incide in misura sensibilmente diversa, sulla capacità economica delle parti, essendo spesso per il lavoratore, e nella stragrande maggioranza dei casi, di molto superiore alla retribuzione mensile. L’incidenza effettiva sulla capacità economica della condanna al pagamento delle spese processuali, infatti, aumenta con il diminuire della retribuzione. Una rappresentazione grafica, può meglio chiarire il punto

REDDITO

INCIDENZA SULLA CAPACITA’ ECONOMICA

€ 100.000,00

5,8%

€ 10.000,00

58,36%

€ 5.000,00

116,72%

€ 1.000,00

583,64%

3. Il contributo unificato

Ulteriore costo solo recentemente introdotto nel nostro ordinamento, con il D.L. 98/2011 (che ha modificato l’art. 9 del DPR 115/2002), è rappresentato dall’obbligo di pagamento del contributo unificato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa o di qualsiasi altro procedimento giudiziario. Tale contributo rappresenta un costo certo, immediato e, almeno in primo grado, quasi sempre ad esclusivo carico del lavoratore–ricorrente.

Essendo pagato con il meccanismo dell’anticipazione, esso prescinde dalla fondatezza o infondatezza della pretesa ed è l’esempio più diretto del superamento del principio di gratuità della tutela giuslavoristica. Prima ancora di ottenere il riconoscimento del proprio diritto, infatti, il ricorrente deve sostenere un costo.

É ben vero che il Legislatore del 2011 ha previsto la riduzione alla metà dei valori fissati per l’iscrizione a ruolo del processo civile ordinario, nonché un’esenzione dal relativo pagamento per i percettori di redditi non superiori al triplo dell’importo previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (attualmente € 12.838,01 x 3 = € 38.514,03). Tuttavia, occorre considerare che:

a) nel reddito complessivo di riferimento sono considerati non soltanto i redditi del ricorrente, ma anche quelli di tutti i componenti il nucleo familiare (art. 76 c. 2 D.P.R. 115/2002);

b) sino al 2019 non vi era alcuna esenzione per i giudizi innanzi alla Corte di Cassazione: solo la sentenza n. 3298 del 22.5.2019, il Cons. Stato, annullando in parte qua la Circolare Min. Giustizia n. 65934 dell’11/5/2012, ha reso applicabile l’esenzione legata al reddito anche per i giudizi di legittimità;

c) diversamente che per il primo e secondo grado, per i giudizi anzi alla Corte di Cassazione il contributo unificato è particolarmente gravoso, essendo dovuto in misura piena e non ridotta alla metà, (art. 9 c. 1bis ultima parte DPR 115/2002);

d) in caso di soccombenza, tanto in grado di appello quanto all’esito del giudizio di legittimità, è prevista la condanna accessoria fissa, al pagamento di un importo pari al doppio del contributo unificato versato.

Sempre in materia di contributo unificato occorre, poi, dare conto di una ulteriore distonia del sistema, scaturente da direttive ministeriali e relativa alle cause con pluralità di ricorrenti. Per tali ipotesi, infatti, con nota 27/3/2018, il Ministero della Giustizia ha ritenuto che “l’ammontare del contributo unificato si determina sulla base della dichiarazione di valore effettuata dalla parte (in senso processuale) in conformità alle disposizioni del codice di rito e, dunque, sommando tra di loro il valore di tutte le domande proposte, indipendentemente dall’esistenza o meno, in capo ad alcuni, di motivi di esenzione”. Ne consegue che l’unico co-ricorrente che vanti un credito (necessariamente) inferiore alla totalità della domanda, dovrà comunque versare un contributo unificato parametrato allo scaglione di riferimento dell’intero (nota Min. 27/3/2018, prot. DAG n.243209 del 29.12.2017).

3.2. Costi del processo esecutivo ed effetto moltiplicatore.

Ma non è ancora tutto.

Il sistema di anticipazione del costo qui in commento lo rende anche particolarmente iniquo, dal momento che potrebbe addirittura rimanere definitivamente a carico del lavoratore–ricorrente in tutti quei casi in cui, ottenuta una pronuncia favorevole, con condanna del datore di lavoro, egli si scontri con l’inadempimento o l’incapienza del debitore.

La tutela dei diritti, infatti, non finisce certo con la definizione del processo di cognizione, ma si estende alla fase successiva dell’esecuzione coattiva, che anzi è il momento di realizzazione concreta dell’utilità astrattamente riconosciuta dal giudice del merito.

In difetto di spontaneo adempimento alla pronuncia di condanna (o all’ingiunzione di pagamento), infatti, il lavoratore- creditore non ha altra strada che quella di avviare una procedura esecutiva, e ciò a) con lo scopo immediato di soddisfare il proprio diritto di credito, b) comunque, quale presupposto procedimentale necessario per accedere al Fondo di Garanzia presso l’INPS ed ottenere il pagamento di alcuni crediti (quali il TFR e, a determinate condizioni, i crediti c.d. diversi, cioè i riferiti alle ultime tre mensilità di retribuzione). 

Ebbene, in tali casi, a quanto già anticipato a titolo di contributo unificato per il giudizio di merito (ordinario o monitorio) e magari a titolo di spese legali per la difesa tecnica, il lavoratore dovrà aggiungere ulteriori contributo unificato e spese per la procedura esecutive (IVG e ulteriori eventuali spese per custodia, se necessaria, trasporto del bene pignorato, rimozione, ecc.). Si tratta, in alcune ipotesi, di costi davvero ingenti, che – quando l’obiettivo è la procedura di accesso al Fondo di Garanzia presso l’INPS – rimarranno definitivamente a carico di chi le ha anticipate non rientrando nella garanzia, con evidente e definitiva erosione del credito azionato (credito, val la pena di ricordare, avente natura alimentare).

Mentre sino al 2022 si riteneva che con riferimento alle procedure esecutive (e concorsuali) il contributo unificato non fosse dovuto ed infatti no veniva richiesto dalle Cancellerie di tutti i Tribunali italiani, la prassi è radicalmente mutata dal gennaio 2023. Con Circolare del 9/1/2023, infatti, il Ministero della Giustizia, Direzione Generale per la Giustizia civile, ha superato il proprio precedente orientamento (espresso con la Circolare 11/5/2012), secondo il quale, i procedimenti esecutivi e concorsuali dovevano intendersi come esenti “da imposta di bollo, imposta di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura” ai sensi dell’articolo unico c. 2 della L. 319/1958. Oggi, viceversa, al dichiarato fine di “scongiurare un possibile danno erariale”, il secondo comma dell’art. unico citato, viene interpretato nel senso che – come per i procedimenti ordinari e monitori di cui al comma 1 – l’esenzione dalle spese fa salva l’applicazione dell’art. 9 c. 1bis del DPR 115/2002 che impone, appunto, il pagamento del contributo unificato.

Come per i giudizi di cognizione, dunque, anche per le procedure esecutive e concorsuali, l’esenzione dal pagamento del contributo unificato, rimane ancorata al mancato superamento della soglia di reddito del nucleo familiare del lavoratore più che al procedimento avviato.

4.2. Le recenti riforme in materia di procedure esecutive.

Nell’esame dell’onerosità delle procedure esecutive, non possono sottacersi, infine, le ricadute (non meno gravose) delle recenti riforme del 2014 e del 2021.

Con l’art. 19 della L. n. 162/2014, infatti, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’art. 26bis cpc, che individua il giudice competente per l’esecuzione in quello del foro ove ha la sede il debitore. In tal modo, pur dopo aver ottenuto il riconoscimento giudiziale del proprio credito (spesso anzi al Tribunale nella cui circoscrizione si trovava la sede lavorativa, generalmente prossima alla residenza), il lavoratore-ricorrente sarà costretto a ‘rincorrere’ il debitore inadempiente magari in una città, provincia o addirittura regione diversa.

Con una norma, della cui logicità ed equità è lecito dubitare, infatti, il Legislatore ha di fatto premiato proprio la parte debitrice e addirittura inadempiente, rendendo, viceversa, ulteriormente oneroso per il creditore l’effettivo soddisfacimento del proprio credito.

Più di recente, poi, la L. 206/2021 ha stato modificato il numero V dell’art. 543 cpc, e sono stati introdotti nelle procedure di pignoramento presso terzi due nuovi adempimenti a carico del creditore: a) la notifica al debitore e al terzo pignorato dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento e b) il successivo deposito telematico dell’avviso.

Adempimenti che si sommano alla (ovvia) precedente notifica agli stessi soggetti dell’atto di pignoramento e alla regolare iscrizione a ruolo della procedura. La ratio di tali previsioni rimane ad oggi oscura, inserendosi in un procedimento di cui il debitore ha già avuto notizia, ma la rilevanza degli incombenti non può essere sottovalutata viste le serie conseguenze del mancato adempimento, che il Legislatore ha inteso punire con la sanzione massima dell’inefficacia del pignoramento.

Una vera corsa ad ostacoli, dunque, (particolarmente dispendiosa in termini di attività, tempi e costi) per il lavoratore-creditore.

Per tutto quanto sin qui esposto, c’è davvero da domandarsi cosa sia residuato del principio dell’effettività della tutela del processo del lavoro, se proprio le volte in cui – e nell’esperienza concreta sono tutt’altro che residuali – al riconoscimento giudiziale di un credito, non segua l’effettivo e pieno soddisfacimento dello stesso, per inadempimento, incapienza o addirittura decozione del debitore e il lavoratore-creditore sia costretto a tortuose e – come visto – quanto mai costose procedure coattive.

In questa riflessione, teniamo fuori l’analisi delle procedure esecutive immobiliari, nelle quali i costi sono spesso davvero proibitivi, essendo necessari in aggiunta a tutto quanto fin qui richiamato, anche accertamenti ed iscrizioni ipo-catastali a mezzo tecnici nominati dal creditore, spese di CTU, onorari per i professionisti delegati alla vendita.

5. Art. 614bis c.p.c. – Una tutela negata.

Infine, una breve riflessione merita anche la disciplina delle Astreintes.

Sull’effettività della tutela dei diritti dei lavoratori, incide, infatti, e sempre in senso negativo, anche l’incomprensibile e irragionevole esclusione delle controversie di lavoro dall’applicazione dell’art. 614bis c.p.c.

Come noto la norma, introdotta nel nostro ordinamento nel 2009, disciplina le misure coercitive indirette per i casi di inadempimento delle obbligazioni diverse da quelle pecuniarie, prevedendo la condanna del debitore inadempiente al pagamento di ulteriori somme di denaro per ogni violazione o inosservanza della pronuncia o per ogni ritardo nell’esecuzione.

Sull’incostituzionalità di tale esclusione si sono espressi in molti, evidenziando come essa appaia davvero priva di giustificazione e introduca una chiara disparità di trattamento tra creditori, basata esclusivamente sulla natura del credito (di lavoro o di altra natura). Addirittura, si può rilevare una disparità di trattamento anche tra gli stessi lavoratori e, in particolare, tra pubblici impiegati e lavoratori del settore privato, dal momento che l’art. 112 c. 3 del cod. proc. amm., prevede il potere del giudice dell’ottemperanza di riconoscere un “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” e, dunque, in una certa misura lascia spazio per una coercizione indiretta.

Nel diritto del lavoro privato, in particolare, si è sottolineata la necessità di una misura coercitiva dell’adempimento degli obblighi di fare o subire, non solo nel caso di scuola della reintegra nel posto di lavoro in seguito a declaratoria di illegittimità/nullità del licenziamento (caso, nel quale comunque, la maturazione delle retribuzione può rappresentare un parziale ristoro per il creditore-lavoratore), ma soprattutto nelle ipotesi di demansionamento o trasferimento dichiarati illegittimi, rispetto ai quali la mancata esecuzione spontanea della condanna da parte del datore non trova ad oggi nessuna possibile misura di coercizione. In tali casi, la tutela (esecutiva) del diritto è non solo resa complicata, ma è addirittura impossibile senza la collaborazione del debitore.

In tale quadro, è molto apprezzabile il tentativo operato da una parte della giurisprudenza di recuperare uno strumento coercitivo nelle maglie dell’art. 669duodecies c.p.c. che, nei soli procedimenti cautelari, consente al giudice di adottare “provvedimenti opportuni” per determinare le modalità di attuazione degli ordini pronunciati con riferimento agli “obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare”.

6. Patrocinio a spese dello Stato.

In chiusura, è opportuno spendere qualche parola sulla disciplina del patrocinio legale a spese dello Stato, contenuta negli artt. 74 e ss. DPR 115/2002, strumento richiamato dalla C. Cost. nel 2018 per respingere l’eccezione di illegittimità costituzione dell’art. 92 c.p.c. con riferimento alla diversa condizione personale delle parti nel processo del lavoro, come sopra riportato.

Il c.d. gratuito patrocinio è, di certo, espressione di quel valore sociale dell’accesso egualitario alla giustizia, di cui si è dato conto in apertura di questa relazione e risponde agli artt. 24 e 3 c. 2 Cost., benché forse sia un rimedio solo parzialmente efficace.

Affinché l’affermazione secondo cui tutti hanno diritto all’accesso alla giustizia e ad una difesa tecnica non si riduca ad una mera petizione di principio, è infatti necessario che lo Stato elimini gli ostacoli (in questo caso, economici) alla realizzazione di pari opportunità nella tutela giudiziaria dei diritti.

Tradizionalmente i sistemi di assistenza legale per i non abbienti sono stati concepiti secondo due distinti modelli: il primo, prevede la semplice erogazione da parte dello Stato del compenso al professionista incaricato; il secondo istituisce, viceversa, veri e propri uffici pubblici di assistenza legale, spesso dislocati sul territorio, e più vicini ai soggetti fruitori (si tratta, dunque, in quest’ultima ipotesi di una misura di “prossimità”, senz’altro più efficace per le categorie economicamente più deboli spesso – ma non sempre – residenti in centri periferici, ma di certo più oneroso per lo Stato).

L’ordinamento italiano si è ispirato al primo modello, mentre il secondo si è diffuso per lo più nei Paesi anglosassoni.

Non è questa la sede per addentrarsi nell’esame delle luci e delle ombre della disciplina, basti qui ricordare che si tratta ancora una volta di istituto di altissimo valore sociale ma non sempre idoneo a garantire effettiva tutela ai non abbienti. Oggi, infatti, il patrocinio a spese dello Stato è garantito a chi ha prodotto – nell’anno in cui ne fa domanda e in quello precedente – un reddito annuo non superiore ad € 12.838,01 lordi (importo così modificato con il DM 10/5/2023).

Nei redditi presi in considerazione vengono calcolate tutte le utilità percepite (anche “in nero”), ivi compresi gli assegni di mantenimento dagli ex coniugi, il reddito di cittadinanza (oggi sostituito dall’Assegno di Inclusione e dal Supporto Formazione e lavoro), e gli assegni di invalidità; viene esclusa, invece, l’indennità di accompagnamento.

Ciò determina che restano esclusi dalla misura tutti i c.d. nuovi poveri: lavoratori dipendenti con retribuzioni significativamente basse o autonomi con forte dipendenza economica.

Va detto, poi, che il patrocinio pubblico copre i costi relativi al procedimento per il quale è stato riconosciuto (onorari e spese per il professionista nominato, per il consulente tecnico di parte e per il consulente tecnico d’ufficio), ma non quelli per le procedure stragiudiziali, pur ampiamente incentivate con le recenti riforme.

Esso, infine, non copre le spese processuali da pagarsi alla controparte in caso di soccombenza, così chiudendo il cerchio di questa riflessione. Vi è, dunque, legittimamente da chiedersi se possa definirsi effettiva una tutela giurisdizionale non solo onerosa, ma addirittura assai costosa, financo e paradossalmente per i non abbienti.

Il presente contributo è tratto dalla relazione tenuta al corso “Il processo del Lavoro: un rito che funziona” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura in Milano il 3/7/2023.

 

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Informativa sui diritti di autore

La legge sul diritto d’autore art. 70 consente l’utilizzazione libera del materiale laddove ricorrano determinate condizioni:  la citazione o riproduzione di brani o parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi qualora siano effettuati per uso di critica, discussione, insegnamento o ricerca scientifica entro i limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera citata o riprodotta.

Vuoi richiedere la rimozione dell’articolo?

Clicca qui

 

 

 

Per richiedere la rimozione dell’articolo clicca qui

La rete #dessonews è un aggregatore di news e replica gli articoli senza fini di lucro ma con finalità di critica, discussione od insegnamento,

come previsto dall’art. 70 legge sul diritto d’autore e art. 41 della costituzione Italiana. Al termine di ciascun articolo è indicata la provenienza dell’articolo.

Il presente sito contiene link ad altri siti Internet, che non sono sotto il controllo di #adessonews; la pubblicazione dei suddetti link sul presente sito non comporta l’approvazione o l’avallo da parte di #adessonews dei relativi siti e dei loro contenuti; né implica alcuna forma di garanzia da parte di quest’ultima.

L’utente, quindi, riconosce che #adessonews non è responsabile, a titolo meramente esemplificativo, della veridicità, correttezza, completezza, del rispetto dei diritti di proprietà intellettuale e/o industriale, della legalità e/o di alcun altro aspetto dei suddetti siti Internet, né risponde della loro eventuale contrarietà all’ordine pubblico, al buon costume e/o comunque alla morale. #adessonews, pertanto, non si assume alcuna responsabilità per i link ad altri siti Internet e/o per i contenuti presenti sul sito e/o nei suddetti siti.

Per richiedere la rimozione dell’articolo clicca qui